Un diritto negato
Le parole da scegliere per connettere in un percorso di senso la nostra mente e il nostro corpo appaiono ormai affastellate a una collezione di stereotipi e pregiudizi che inquinano il discorso pubblico in maniera apparentemente irrecuperabile. Non è stato sempre così. Concetto Marchesi nel 1893 ha 16 anni e studia nel liceo Spedalieri di Catania. Non gli sta bene come stanno le cose e insieme ad altri studenti decide di fondare un giornale per denunciarlo. Il primo articolo del primo numero gli costa caro: le istituzioni del tempo giudicano le parole che ha scelto diffamatorie e per queste lo condannano alla pena di due anni di prigione da scontare appena maggiorenne. Marchesi, pagato con la giustizia il conto per le sue opinioni, torna a studiare e pian piano si impone come uno dei maggiori latinisti del paese, fino a diventare rettore dell’Università di Padova. Scrive le edizioni dell’Eneide e di altri grandi classici per le scuole di tutto lo Stivale, ma nel 1946 arriva il compito più difficile della sua vita: le madri e i padri costituenti che lavorano da due anni alle parole della Carta chiamata a dettare i principi della nuova Italia democratica gli danno due settimane per limare il testo che hanno faticosamente licenziato.
Le parole sono più importanti di quello che pensiamo. Quella che Marchesi è chiamato a completare è infatti una delle più mastodontiche imprese collettive attorno a un testo, un’opera di selezione di concetti e di tara delle parole di importanza capitale per la convivenza civile delle future generazioni. Alla fine di una riflessione articolatissima, vengono soppesate parole e semplificati concetti in modo che per decenni rimanga chiara la direzione da intraprendere. L’articolo 36 si occupa di salute e viene approvato con queste parole: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Quello racchiuso nel 36 è l’unico diritto per il quale la Carta riserva l’aggettivo “fondamentale”, e da questa scelta derivano precise conseguenze giuridiche che riguardano la vita di ognuno di noi: la salute nel suo intero è un diritto inalienabile, intrasmissibile, indisponibile e irrinunciabile.
Siamo però oggi in grado di stabilire se questa alta volontà è stata davvero rispettata, se il diritto alla salute come benessere fisico e psichico degli individui in società è davvero garantito? È una domanda più che mai opportuna, basta dare un’occhiata ai dati più recenti. Secondo il report “Health at a Glance: Europe”, nato dalla collaborazione tra l’OCSE e la Commissione europea, assistiamo assistiamo infatti a “un peggioramento senza precedenti della salute mentale della popolazione, in particolare tra i giovani”. L’emergenza sanitaria legata alla pandemia da Covid-19 ha infatti esacerbato i fattori di rischio associati ai problemi di salute mentale, indebolendo allo stesso tempo i cosiddetti fattori protettivi: ne deriva che i casi di ansia e depressione tra la popolazione giovane si presentano raddoppiati rispetto al periodo pre-pandemico. Inoltre, da un’indagine sulla salute mentale e il benessere, condotta da Ipsos e promossa dal Gruppo Axa su un campione di 30.600 persone di età compresa tra i 18 e i 74 anni in 16 Paesi, risulta che l’Italia presenta la più bassa percentuale di persone che avvertono uno stato di pieno benessere mentale.
In Italia, il diritto alle cure psichiatriche è stabilito per legge. Con decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 12 gennaio 2017, la salute mentale figura tra i Lea, ossia i Livelli essenziali di assistenza, ma di fatto ancora oggi nel nostro Paese per una larga fetta di popolazione non è possibile accedere alle cure. Sempre più italiani e italiane non riescono ad accedere alle attenzioni di cui sentono il bisogno e ovviamente la forbice fra le aree più sviluppate e quelle meno sviluppate del paese si allarga sempre di più. Per quanto riguarda le regioni, infatti, il tasso di strutture territoriali psichiatriche è pari a 2,5 su 100mila abitanti: la Basilicata, con un minimo di 0,8 strutture territoriali per 100.000 abitanti è ultima, mentre il Friuli-Venezia Giulia, guida la classifica con 8,4 strutture (+239,3%). Una serie di dati allarmanti, che dicono in maniera chiara quanto ci sia ancora da fare e con quale urgenza. Insomma, è nei fatti quanto sia importante parlare di salute mentale e che non si fa abbastanza e abbastanza bene: le pagine che seguono rappresentano il nostro piccolo, ma faticato contributo in direzione ostinata e contraria. La salute mentale come tema declinato dalle civiltà antiche e nella contemporaneità attraverso le sfaccettature delle arti visive, della musica, dello sport ha impegnato la redazione di Argomenti per mesi affinché si generasse una goccia di quella che speriamo diventi presto la tempesta culturale di cui c’è bisogno. Se ci è costato qualche errore e, come cantava De Andrè, un po’ di sangue dal naso, è solo perché troppo forte lo abbiamo sognato.